Baldassare Castiglione

Cortegiano, 1549

Lo spirito umanista, con il suo desiderio di abbracciare e fondere la varietà e la confusione della vita, riempie quella conversazione rinascimentale – allo stesso tempo così formale e così libera, così scolastica e spontanea, così disciplinata nel disegno e conviviale nel movimento – con una visione ardente dell’unica virtù di cui la natura umana è normalmente capace: quella dell’urbanità morale. Ed è questa virtù che le donne prestano alla società. Sono le custodi del patto sociale. Nel codice del Cortegiano la donna rinascimentale entra in gioco e la missione che Isabella perseguiva nel faticoso tumulto della vita reale è realizzata, in queste pagine animate, dalla sua passiva cognata Elisabetta. Sebbene non prenda parte alla conversazione, la presiede e la sua presenza ne permea lo svolgimento. Gli uomini si rimettono a lei, specialmente nella loro condotta con le donne – “con le quali avevamo la più libera e il commercio, ma tale era il rispetto che portavamo alla volontà della duchessa che la libertà era la più grande costrizione.”

Nel 1528, l’anno prima della sua morte, il libro per cui Castiglione è più famoso, Il Libro del Cortegiano, fu pubblicato a Venezia dalla Stampa Aldina gestita dagli eredi di Aldus Manutius. Il libro, in forma di dialogo, è un ritratto elegiaco della corte esemplare di Guidobaldo da Montefeltro di Urbino durante il soggiorno giovanile di Castiglione all’inizio del XVI secolo. Rappresenta un’elegante conversazione filosofica, presieduta da Elisabetta Gonzaga, (il cui marito Guidobaldo, invalido, era confinato a letto) e da sua cognata Emilia Pia. Castiglione stesso non contribuisce alla discussione, che si immagina sia avvenuta mentre era assente. Il libro è un tributo commemorativo di Castiglione alla vita a Urbino e alle sue amicizie con gli altri membri della corte, che hanno tutti ricoperto posizioni importanti e molti dei quali sono morti quando il libro è stato pubblicato, dando un senso di commozione ai loro ritratti. Affronta il tema, proposto da Federigo Fregoso, di ciò che costituisce un ideale gentiluomo rinascimentale. Nel Medioevo, il perfetto gentiluomo era stato un cavaliere cavalleresco che si distingueva per le sue prodezze sul campo di battaglia. Il libro di Castiglione cambiò tutto questo. Ora il perfetto gentiluomo doveva avere anche un’educazione classica nelle lettere greche e latine. Il modello umanista ciceroniano dell’oratore ideale (che Cicerone chiamava “l’uomo onesto”), su cui si basa Il Cortegiano, prescrive per l’oratore una vita politica attiva di servizio al paese, sia in guerra che in pace. Gli studiosi concordano sul fatto che Castiglione attinse a piene mani dal celebre trattato di Cicerone De Officiis (“I doveri di un gentiluomo”), ben noto in tutto il Medioevo, e ancor più dal suo De Oratore, che era stato riscoperto nel 1421 e che discute la formazione di un oratore-cittadino ideale. Jennifer Richards fa notare che la questione posta dal De Oratore, cioè se la retorica può essere insegnata o se è un dono innato, è parallela a quella di The Courtier. Anche il genere è lo stesso nel Cortegiano e nel De Oratore: una discussione comoda, informale, aperta, nella retorica ciceroniana chiamata sermo (conversazione), in cui gli oratori espongono i vari lati di un argomento in modo amichevole (piuttosto che conflittuale), invitando i lettori, come partecipanti silenziosi, a decidere la verità da soli. Hans Baron lo definì notoriamente un “umanesimo civico”. Ma quando Castiglione scriveva, queste repubbliche erano state sostituite da corti principesche”. Secondo Peter Burke, un modo per riassumere il risultato di Castiglione “in una frase”, “sarebbe quello di dire che ha contribuito ad adattare l’umanesimo al mondo della corte e la corte all’umanesimo”. Lo scopo del gentiluomo rinascimentale ideale di Castiglione non era l’auto-coltivazione fine a se stessa, ma per partecipare a una vita attiva di servizio pubblico, come raccomandato da Cicerone. Per fare questo doveva guadagnarsi il rispetto e l’amicizia dei suoi pari e soprattutto di un sovrano, o principe, cioè doveva essere un cortigiano, in modo da poter offrire un aiuto prezioso e consigli disinteressati su come governare la città. Doveva essere un amico degno, realizzato negli sport, nel raccontare barzellette, nel combattere, nello scrivere poesie, nel suonare la musica, nel disegnare e nel ballare, ma non troppo. Alla sua eleganza morale (la sua bontà personale) deve essere aggiunta l’eleganza spirituale conferita dalla familiarità con la buona letteratura (cioè, le scienze umane, compresa la storia). Inoltre, deve eccellere in tutto ciò che fa senza sforzo apparente e far sembrare tutto facile e naturale. In un famoso passaggio, l’amico di Castiglione, Lodovico da Canossa, le cui opinioni rappresentano probabilmente quelle di Castiglione, spiega “la misteriosa fonte della grazia cortese, la qualità che fa sembrare il cortigiano un nobile naturale”: la sprezzatura. La sprezzatura, o l’arte che nasconde l’arte (nelle parole di un altro antico retore, Quintiliano), non è semplicemente un tipo di dissimulazione superficiale, perché la grazia può anche essere il risultato di una pratica così assidua che ciò che si fa diventa una seconda natura e sembra innato. All’inizio della discussione Canossa insiste anche sul fatto che l’arte di essere un perfetto cortigiano è qualcosa che non può essere insegnata (cioè scomposta in un insieme di regole o precetti), e quindi, dichiara (retoricamente-e con sprezzatura) che si rifiuterà di insegnarla. L’implicazione, tuttavia, è che coloro che sono interessati ad acquisire quest’arte devono farlo attraverso la pratica e l’imitazione, che è – come il dialogo stesso – una forma di insegnamento – insegnamento senza precetti. Perfezionare se stessi non è egoistico, ma soddisfa un dovere morale pubblico e privato per l’individuo di agire come modello per gli altri.

Il cortigiano ideale, quindi, deve agire con nobile sprezzatura, e Canossa sostiene che poiché il cortigiano ideale deve essere un uomo d’armi, abile nell’equitazione, deve essere di nobile nascita. A questo, un altro interlocutore, un giovanissimo Gaspare Pallavicino, obietta che molti uomini eccezionali e virtuosi sono stati di umili origini. Gli altri partecipanti alla fine concordano sul fatto che anche chi è di umili origini può essere un perfetto cortigiano, poiché la nobiltà può essere appresa attraverso l’imitazione dei migliori modelli della vita e della storia fino a diventare radicata e naturale. Questa, almeno, è la teoria; ma in pratica, ammettono, è più facile diventare un perfetto cortigiano se si nasce in una famiglia distinta. In ogni caso, il cortigiano ideale dovrebbe essere in grado di parlare con grazia e in modo appropriato con persone di tutte le classi sociali. I francesi hanno torto ad affermare che la conoscenza delle lettere è in conflitto con l’abilità di combattimento. Il cortigiano dovrebbe essere profondamente versato in greco e latino e dovrebbe sapere abbastanza per essere in grado di discriminare tra la buona e la cattiva scrittura (così come le altre arti) per se stesso, senza fare affidamento servilmente sulla parola degli altri. I partecipanti deplorano anche ciò che considerano i modi rudi e incolti dei francesi, che dicono di guardare con disprezzo a quello che chiamano un “impiegato” (o qualcuno che sa leggere e scrivere), anche se si esprime speranza per Francesco di Valois, il futuro re di Francia. Questo è un argomento amaro, dato che i francesi, che avevano appena invaso l’Italia, si erano dimostrati nettamente superiori in combattimento agli italiani. È da notare, tuttavia, che sebbene l’abilità nel combattimento sia insistita all’inizio come requisito per il cortigiano italiano, essa è scarsamente accennata nel resto del libro. Pietro Bembo, che fu poeta e arbitro dell’eleganza nella lingua italiana, infatti, mette addirittura in dubbio che sia necessaria.

In genere, il cortigiano dovrebbe essere giovane, circa ventisette anni, almeno mentalmente, anche se dovrebbe dare l’impressione di essere più grave e più riflessivo dei suoi anni. A questo scopo dovrebbe indossare colori tenui piuttosto che brillanti, anche se in generale l’abbigliamento dovrebbe seguire i costumi prevalenti del suo ambiente. Il cortigiano dovrebbe sempre apparire un po’ più umile di quanto la sua posizione richieda. Dovrebbe fare attenzione a non apparire sprezzante degli sforzi degli altri e dovrebbe evitare l’arroganza mostrata da alcuni nobili francesi e spagnoli.

La discussione tocca anche una varietà di altre questioni, come quale forma di governo sia migliore, una repubblica o un principato – i fratelli genovesi Fregoso si schierano dalla parte della repubblica, dato che Genova aveva avuto a lungo un governo repubblicano. C’è anche una lunga discussione su quali siano gli argomenti appropriati per scherzare (i convenevoli), una componente essenziale della conversazione piacevole: non si dovrebbero prendere in giro gli attributi fisici delle persone, per esempio.

Si parla di musica, e Ludovico Canossa dichiara che il cortigiano dovrebbe saper leggere la musica e suonare diversi strumenti. Quando il giovane nobile lomabardo Gaspare Pallavicino obietta che la musica è effeminata, Canossa risponde che non c’è modo migliore per calmare l’anima e sollevare lo spirito che attraverso la musica, e nomina grandi generali ed eroi dell’antichità che erano musicisti appassionati. Lo stesso Socrate Grave iniziò a imparare il citerio da vecchio. Infatti, i più saggi filosofi antichi insegnavano che i cieli stessi sono composti di musica e che esiste un’armonia delle sfere. Anche la musica promuove abitudini di armonia e virtù nell’individuo e dovrebbe quindi essere imparata fin dall’infanzia. Giuliano de’ Medici concorda sul fatto che per il cortigiano la musica non è solo un ornamento ma una necessità, come lo è per gli uomini e le donne di tutti i ceti sociali. Il cortigiano ideale, tuttavia, non dovrebbe dare l’impressione che la musica sia la sua principale occupazione nella vita.

Discutono poi su quale sia superiore, la pittura o la scultura? La risposta è lasciata aperta ma sembra propendere a favore della pittura, perché, come sostiene Canossa:

Chi non stima l’arte della pittura mi sembra abbastanza sbagliato. Perché in fin dei conti, il tessuto stesso dell’universo, che possiamo contemplare nei vasti spazi del cielo, così splendente con le sue stelle cadenti, con la terra al suo centro, circondata dai mari, variata da montagne, fiumi e valli, e adornata da così tante varietà diverse di alberi, bei fiori ed erbe, si può dire che sia un grande e nobile dipinto, composto dalla Natura e dalla mano di Dio. E, a mio parere, chiunque possa imitarlo merita la massima lode.

Un altro argomento, quello della Dama di Corte, tira in ballo la questione della parità dei sessi. Un personaggio, Gaspare Pallavicino, è stato raffigurato nel corso della discussione come un misogino convinto (a un certo punto dichiara addirittura che le donne sono buone solo per avere figli). Elisabetta Gonzaga ed Emilia Pia considerano il suo atteggiamento come una sfida e invitano gli altri a prendere le difese delle donne. La sera seguente Giuliano di Lorenzo de’ Medici, che a 28 anni è un po’ più maturo di Gaspare Pallavicino, viene scelto per difendere le donne. Egli è all’altezza dell’occasione, affermando la loro uguaglianza con il sesso maschile sotto ogni aspetto, e fa notare come nel corso della storia alcune donne abbiano eccelso nella filosofia e altre abbiano fatto la guerra e governato le città, elencando per nome le eroine dei tempi classici. Pallavicino, incuriosito, accenna al fatto che Giuliano ha torto, ma alla fine concede che lui stesso ha sbagliato a denigrare le donne. Il lettore è portato a concludere che l’amarezza di Pallavicino verso il sesso femminile può essere il risultato di una profonda delusione amorosa di un giovane sincero, e questo mette un po’ in dubbio la sincerità del dolce e affabile Giuliano, il difensore (o lusingatore, come suggerisce Pallavicino) delle donne. C’è qualche dubbio se Pallavicino o Giuliano, o entrambi, esprimano le reali opinioni di Castiglione sul tema delle donne. Giuliano de’ Medici era anche la persona a cui Machiavelli aveva inizialmente pensato di indirizzare il suo libro Il Principe, anche se a causa della morte di Giuliano fu invece dedicato a suo nipote, Lorenzo. Giuliano fu poi insignito del titolo di Duc de Nemours dal re Francesco I di Francia. Morì poco tempo dopo, nel 1517, e fu ricordato in una celebre statua di Michelangelo. Gaspare Pallavicino, il più impetuoso ed emotivo degli interlocutori de Il Cortegiano, era un parente di Castiglione e la “fonte” fittizia che in seguito raccontò le discussioni al presunto assente Castiglione (che infatti era tornato a Urbino dall’Inghilterra poco prima della data fittizia del dialogo).

Il libro termina su una nota elevata con un lungo discorso sull’amore dell’erudito umanista Pietro Bembo (poi cardinale). Bembo era nato nel 1470 e nel 1507, quando si suppone che il dialogo abbia avuto luogo, avrebbe avuto circa trent’anni. L’amore dei giovani tende naturalmente ad essere sensuale, ma Bembo parla di un tipo di amore immaginativo e non fisico che è disponibile sia per i giovani che per gli anziani. Il discorso di Bembo è basato sugli influenti commenti di Marsilio Ficino sul discorso di Socrate sulla natura dell’amore alla conclusione del Simposio di Platone, tranne che nel Cortegiano l’oggetto dell’amore è eterosessuale e non omosessuale. Bembo descrive come l’esperienza dell’amore sublimato porta l’amante alla contemplazione della bellezza e delle idee ideali. Parla della natura divina e dell’origine dell’amore, il “padre dei veri piaceri, di tutte le benedizioni, della pace, della dolcezza e della buona volontà: il nemico della rozza ferocia e della viltà”, che alla fine eleva l’amante alla contemplazione del regno spirituale, conducendo a Dio. Quando Bembo ha finito, gli altri si accorgono che sono tutti talmente estasiati dal suo discorso che hanno perso la cognizione del tempo, e si alzano in piedi, stupiti di scoprire che il giorno è già spuntato:

Quindi, quando le finestre del lato del palazzo che si affaccia sull’alta vetta del monte Catria furono aperte, videro che l’alba era già giunta a est, con la bellezza e il colore di una rosa, e tutte le stelle erano state disperse, tranne solo la bella padrona del cielo, Venere, che custodisce i confini della notte e del giorno. Da lì, sembrava venire una brezza delicata, che riempiva l’aria di freddo pungente, e tra i boschi mormoranti delle colline vicine svegliava gli uccelli in un canto gioioso. Poi tutti, dopo aver preso commiato dalla duchessa, andarono nelle loro stanze, senza torce, perché la luce del giorno era sufficiente.

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