Stalker: Significato e realizzazione

A giudicare dai suoi diari pubblicati, gli anni Settanta furono un periodo difficile per Andrej Tarkovskij, pieno di angoscia, dolore e incertezza. Il suo grande film autobiografico Lo specchio aveva ottenuto solo un’uscita nazionale limitata nel 1975 e non gli era stato permesso di essere proiettato all’estero. I nuovi progetti cinematografici da lui contemplati, come un adattamento de L’idiota di Dostoevskij e una sceneggiatura basata sulla vita del poeta romantico tedesco E. T. A. Hoffmann, furono accolti con offuscamento se non con ostilità dai burocrati responsabili della politica cinematografica sovietica. A un certo punto, a metà del decennio, Tarkovskij pensò di abbandonare del tutto il cinema per concentrarsi sulla carriera teatrale. E in effetti, riuscì a mettere in scena un’importante produzione di Amleto al Teatro Lenkom di Mosca nel 1977.

Alla fine, però, un ultimo grande film russo sarebbe emerso da quegli anni angosciosi di dubbi e disordini: Stalker (1979), il quinto film di Tarkovsky e l’ultimo che realizzò in Unione Sovietica prima di passare all’Ovest. Solo altre due opere di fiction seguiranno il suo esilio volontario: Nostalghia, realizzato in Italia e uscito nel 1983, e il suo canto del cigno realizzato in Svezia, Il sacrificio (1986). Il regista morì di cancro fuori Parigi alla fine del 1986, all’età di cinquantaquattro anni.

Stalker fu il suo secondo tentativo di affrontare un soggetto fantascientifico, dopo l’avventura spaziale Solaris (1972), anche se è diverso in quasi tutti i modi da quel film precedente, così come da Lo specchio. Il film è un adattamento di un romanzo intitolato Roadside Picnic dei fratelli Strugatsky, Arkady (1925-91) e Boris (1933-2012); Tarkovsky lo lesse subito dopo la sua uscita sulla rivista letteraria Avrora nel 1972. L’osservatore esterno può chiedersi perché sia stato attratto da questo specifico racconto. A differenza del materiale di origine artistica come Shakespeare e Dostoevskij, appartiene molto al bordo hard-boiled dello spettro letterario; è pieno di slang e violenza, con caratterizzazione e sentimenti che corrispondono a questi attributi. Tuttavia, aleggiando sotto la superficie, e attaccato specificamente alla psicologia del personaggio che sarebbe diventato il protagonista eponimo del film (in relazione a sua moglie e alla loro figlia misteriosamente danneggiata, Monkey), si può discernere una tenerezza di prospettiva difficile da definire, più in linea con le preoccupazioni abituali del regista: una fede umanistica (se si può metterla così fortemente) nella sacralità dell’unità familiare, anche se niente altro nella società può essere definito in tali termini. La visione essenziale del libro è distopica, ma questo può essere stato parte della sua attrazione. Certamente, c’erano molte cose in Unione Sovietica a quel tempo su cui essere distopici.

Detto questo, il film è un adattamento piuttosto libero del romanzo. L’idea di base della Zona – creata anni fa da un’incursione di alieni, e piena di misteriosi pericoli che sono stati esplorati, illegalmente, nel corso degli anni da agenti freelance chiamati stalker (che si offrono, a volte, come guide a turisti coraggiosi) – è comune a libro e film. Ma il libro ha molti più incidenti, personaggi e digressioni, e a differenza del film si svolge nell’arco di anni. Il lavoro di Tarkovsky ha comportato, come gli adattamenti devono quasi invariabilmente fare, una rigorosa semplificazione della linea della storia. Per esempio, i diversi viaggi nella Zona raccontati nel libro sono ridotti a una sola incursione, mentre i compagni dello Stalker, lo Scrittore (Anatoly Solonitsyn) e il Professore (Nikolai Grinko), sono invenzioni del regista (sebbene si possano riconoscere in loro elementi compositi di diversi personaggi dell’originale). Al centro della Zona, e accessibile solo ai viaggiatori che sono sopravvissuti ai terrori invisibili del “Grinder” (un tunnel apparentemente senza fine pieno di stalagmiti e stalattiti frastagliate), si trova la leggendaria Stanza, il cui ingresso, si dice, garantirà al viandante la realizzazione dei suoi desideri più intimi. (Nel libro, la magia è collegata a un oggetto – una “sfera d’oro” – piuttosto che a una destinazione, ma per il resto le due nozioni sono identiche). Gli spettatori del film, come i lettori del libro, possono avere opinioni diverse su quanto “profondo” sia il concetto con cui siamo confrontati qui, giudicato dal punto di vista elevato della filosofia o della religione. Eppure, come terminus ad quem, il “desiderio più profondo” è salvato dalla leggerezza dalla pura complessità della sua distribuzione nel film: quali siano questi desideri più profondi (altruistici o cinicamente egoistici) non è mai finalmente appuntato a nessuno dei tre personaggi in un modo che possa essere riassunto coerentemente.

Il dialogo, poi, è in tutto magnificamente ambivalente: spiritoso e fantastico oltre misura. I vivaci disaccordi verbali del trio di viaggiatori, insieme ai loro mercuriali cambiamenti di umore, sono senza dubbio tra i principali tesori di questo film. Naturalmente, c’è anche molto altro qui, ugualmente meraviglioso e tarkovskiano, tra cui vanno annoverati, soprattutto, meravigliosi momenti di pace, silenzio e sonno. (Dovremmo anche notare la partitura musicale eccezionalmente bella, composta da Eduard Artemyev). Potrebbe sembrare un cliché insistere sul fatto che il film è un mezzo visivo, ma sicuramente ciò che non viene detto è altrettanto importante, nell’effetto totale di questo film, quanto l’articolazione dei suoi seri sforzi etici. Tarkovsky sembra aver trovato un modo di fotografare la testa umana – animata e in riposo – come non era mai stata fotografata prima. La rende monumentale: scultorea e filosofica. Con le caotiche interruzioni del processo di produzione (di cui si parlerà più avanti), la concentrazione dello sforzo che ha raggiunto qui mi sembra a dir poco miracolosa. Naturalmente, queste teste umane dovevano essere straordinarie in primo luogo: non solo quella dello Stalker (Alexander Kaidanovsky) ma anche quelle dello Scrittore e del Professore. Come li indaga ipnoticamente la macchina da presa!

In un diario del 3 luglio 1975, quattro anni prima che Stalker fosse completato e mentre ancora lottava per ottenere una proiezione decente de Lo specchio, Tarkovskij si chiede: “Come matura un progetto? È ovviamente un processo molto misterioso, impercettibile. Si svolge indipendentemente da noi stessi, nel subconscio, cristallizzandosi sulle pareti dell’anima. È la forma dell’anima che lo rende unico; infatti, solo l’anima decide il ‘periodo di gestazione’ nascosto di quell’immagine che non può essere percepita dallo sguardo cosciente.” Il primo accenno al progetto che si sarebbe trasformato nel film intitolato Stalker si trova in una voce di diario del giorno di Natale del 1974, dove il pensiero è altrettanto astratto: “Al momento, vedo una versione cinematografica di qualcosa dei fratelli Strugatsky come totalmente armoniosa nella forma: azione ininterrotta, dettagliata, ma equilibrata da un’azione religiosa, interamente sul piano delle idee, quasi trascendentale, assurda, assoluta.”

Nella stessa voce, è chiaro che Tarkovskij ha anche letto L’idiota, insieme a La morte di Ivan Ilych di Tolstoj – in ogni caso pensando: Come sarebbe adattarli? Questo era il suo modo di lavorare: molti, molti progetti in corso allo stesso tempo, tutti impercettibilmente alimentando le idee l’uno nell’altro. Si possono sicuramente vedere certe somiglianze, sulla scala spirituale se non su quella sociale, tra l’eroe di Dostoevskij, il mite principe Myshkin, e la misteriosa figura che si è trasformata nello Stalker (anch’esso mite, interrogante, non proprio di questo mondo). Nell’alambicco di idee che si agitavano all’inizio della vita di Stalker, ci sarebbero stati anche altri elementi: Amleto, come detto sopra – un altro principe gentile (molto diverso da Myshkin!) – e Hoffmann. Nel frattempo, Tarkovskij trova nelle pagine del suo diario un collegamento retrospettivo con Solaris: usare la forma della fantascienza nel suo nuovo film, dice, gli permetterà di affrontare legalmente il tema della religione. Non aveva potuto affrontare questo tema in The Mirror, con tutte le libertà che quel grande film indubbiamente mostra. Ci sono in effetti degli accenni alla religione nel testo originale di Strugatsky (la preghiera, per esempio, fa molto parte del mondo mentale del protagonista) che sono ripresi e ornati nel film finito, senza rendere l’opera, credo, un’allegoria cristiana.

Per quanto siano intimi, anche i diari non ci dicono tutto, comunque. Dobbiamo cercare di immaginare i pensieri che non vengono messi su carta. Visto che stiamo parlando del “progresso segreto” della creatività, i sogni sono sicuramente un input interessante. Quasi tutti i sogni registrati da Tarkovskij nel periodo 1974-77 sembrano riguardare l’essere in prigione – in un caso, l’essere in prigione, fuggire e voler tornare di nuovo in prigione. “Alla fine, con mia grande gioia, ho visto l’ingresso della prigione, che ho riconosciuto dal bassorilievo dell’emblema dell’URSS. Ero preoccupato di come sarei stato accolto, ma questo non era niente in confronto all’orrore di essere uscito di prigione”. Stalker a qualche livello (forse anche a livello di “desiderio più profondo”) riguarda il desiderio di lasciare la Russia per sempre: i primi venti minuti mettono in scena una riconoscibilissima fantasia da guerra fredda di sfondare le barriere. Allo stesso tempo, c’è la corrispondente sensazione che sarebbe impossibile, e in realtà sbagliato, farlo. Così, per tutto il tempo in cui Tarkovskij si agitava contro gli “insopportabili vincoli” della burocrazia socialista che era destinato a servire (e pensava che, forse, poteva esserci una via d’uscita – per esempio, accettando l’invito a venire in Italia che gli era stato mandato dal suo amico Tonino Guerra), stava anche “scavando”, preparandosi a rimanere. Fu nel 1976 che comprò una piccola dacia in un posto chiamato Myasnoy, circa duecento miglia a sud-est di Mosca, arredandola con cura per la moglie Larissa, il figlio di sei anni Andryusha e l’amato cane alsaziano, chiamato Dakus.

La “gestazione misteriosa” di Stalker è continuata nel corso della sua travagliata produzione. In effetti, si potrebbe dire che le circostanze della realizzazione del film costituiscono uno strato secondario della sua leggenda. Un documentario del 2009 di Igor Maiboroda approfondisce questa storia, ed è intrigante chiedersi se le rivelazioni che emergono possano essere dette per demistificare il film o, in qualche strano e perverso modo, per fortificare il suo fascino. (Casi paralleli si presentano con film come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e Fitzcarraldo di Werner Herzog, entrambi notoriamente messi in ombra da documentari approfonditi che hanno esposto le straordinarie difficoltà, sia sul piano fisico che spirituale, della loro realizzazione). Il film di Maiboroda si chiama Rerberg e Tarkovsky: The Reverse Side of “Stalker”. Come il titolo implica, l’indagine principale riguarda le circostanze che circondano il licenziamento durante le riprese dell’illustre cameraman di Tarkovsky, Georgy Rerberg, responsabile della bellissima fotografia a colori de Lo specchio. Rerberg, in questo documentario, è il centro dell’attenzione: il film racconta la storia dal suo punto di vista, e nel processo riesce a dipingere un ritratto pungente del regista di Stalker come un essere umano vanitoso, arrogante e impaziente.

Nonostante, l’arte dolce e convincente può nascere, e spesso lo fa, da circostanze improbabili. Il cattivo comportamento di Tarkovskij sul set (e anche di Rerberg, se leggiamo tra le righe: evidentemente si beveva molto, da tutte le parti) è naturalmente irrilevante per il significato finale del film. Eppure, tra le molte rivelazioni che emergono dal film di Maiboroda, altre due sembrano particolarmente interessanti quando si tratta di valutare storicamente Stalker. La prima riguarda la location, e quindi il “look” del film, in tutta la sua idiosincratica particolarità. L’idea originale di Tarkovskij era che Stalker dovesse essere girato vicino alla città di Isfara, nella regione desertica dell’Asia centrale sovietica. I preparativi erano arrivati a uno stadio avanzato nel febbraio 1977, quando un forte terremoto nella regione rese necessaria la ricerca di un luogo alternativo, una ricerca che si concluse con le riprese del film in Estonia (Tarkovskij conosceva bene la zona: negli anni precedenti, aveva fatto avanti e indietro da Tallinn per seguire il suo progetto Hoffmann). Questi cambiamenti di terreno all’ultimo minuto sono probabilmente abbastanza comuni nel cinema, e non varrebbe la pena soffermarsi su di essi se non fosse che il paesaggio lussureggiante, acquoso e altamente specifico di Stalker gioca un ruolo fondamentale nel suo impatto estetico. E non solo il film, ma anche la leggenda, perché fa sicuramente parte della mistica e della reputazione di Stalker il fatto che, in qualche strano modo, le esplorazioni di Tarkovsky in esso “profetizzassero” la distruzione, mezzo decennio dopo, della centrale nucleare di Chernobyl.

Quando guardiamo il film, pensiamo solo alla strana bellezza del paesaggio acquatico attraverso il quale lo Stalker, lo Scrittore e il Professore compiono il loro strano pellegrinaggio sperimentale. Eppure non era affatto bello, anzi era orribile, per le persone che vi lavoravano. In una delle location, una raffineria in disuso, la troupe doveva stare per ore e ore in piedi fino alle ginocchia in puzzolenti pozzanghere di petrolio, mentre gli effluenti scaricati, a monte, da un impianto di lavorazione della carta avvolgevano il set in un fetido miasma. Questo è andato avanti per mesi e mesi. Ai testimoni che ne hanno scritto – tra le testimonianze pubblicate, si possono consultare quelle di Yelena Fomina (costumista), Vladimir Sharun (fonico), Evgeny Tsymbal (supervisore degli accessori) e Sergei Naugolnykh (primo assistente operatore) – la produzione deve essere sembrata interminabile. Quando le riprese in Estonia si interruppero dopo tre mesi, nell’estate del 1977, Tarkovsky sostituì Rerberg con un altro direttore della fotografia, Leonid Kalashnikov. Per tutto l’autunno, la troupe lavorò per riprodurre le magiche riprese perdute, ma con un successo minimo, a detta di tutti. Il film fu interamente ripreso l’anno successivo con un altro operatore (Alexander Knyazhinsky): questa è la versione che è arrivata fino a noi. Eppure ho il sospetto che lo spettatore non si accorgerebbe di tutto questo tormento se non ne venisse a conoscenza da fonti esterne: il film, così come lo guardiamo, sembra così splendidamente d’un pezzo, così senza soluzione di continuità, così calcolato fino all’ultimo millimetro.

E qui è dove dovremmo lasciare la questione. Le riprese originali di Rerberg, conservate con la montatrice del film, Lyudmila Feyginova, sono andate in fumo nel 1988. Ci sono testimoni vivi oggi che affermano che questa versione era, nonostante i danni di laboratorio che hanno causato la controversia, straordinariamente bella. Solo una sequenza sopravvive, e possiamo vederla, dato che è incorporata nel montaggio finale di Stalker. La maggior parte delle persone sarebbe d’accordo, credo, sul fatto che ha un impatto visivo drammatico. (Come per molte sequenze di questo film, si può passare il tempo a chiedersi come sia stato fatto). L’episodio in questione è quello che mostra una specie di uragano o di tempesta di polvere che soffia sulla superficie ondeggiante delle paludi. Il film di Maiboroda ci dice che questa sequenza e diverse altre sono state girate in prossimità di materiali fisicamente pericolosi, senza che si sia pensato molto a proteggere la troupe o gli attori. In seguito, un certo numero di persone associate a Stalker – tra cui Rerberg, l’attore Solonitsyn, la moglie di Tarkovsky, Larissa, e il regista stesso – sono decedute… non si dovrebbe dire “misteriosamente”, ma in ogni caso, prima del loro termine naturale. Per essere un po’ più precisi: ci sono persone vicine all’eredità di Tarkovskij che giurano che il cancro che ha ucciso lui, e forse altri, ha avuto origine nei terribili mesi delle riprese multiple di Stalker.

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